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Newsletter Osservatorio Europa n.1_2014

Osservatorio Europa

Newsletter n. 1 del 3 gennaio 2014

 

CONVEGNI

NOVITÀ LEGISLATIVE

GIURISPRUDENZA

 

 

CONVEGNI

 

22 gennaio 2014, Milano.

L'acquisizione della prova e le garanzie difensive nei procedimenti per i reati lesivi degli interessi finanziari dell'unione europea.

Il convegno, organizzato dal Centro Studi di Diritto Penale Europeo unitamente all'Unione degli Avvocati Europei (UAE), all'Ufficio Europeo per la lotte antifrode (OLAF) e alla Camera Penale di Milano, tratterà i temi i seguenti temi: “La ricerca della prova e le garanzie difensive nell’attività investigativa per la protezione degli interessi finanziari dell’UE” (I Sessione) e “Accusa e difesa a confronto sulla ricerca delle prove in relazione alla proposta di istituzione della Procura europea” (II Sessione).

Al convegno interverranno autorevoli esponenti dell'avvocatura, dell'accademia e della magistratura italiana, nonché prestigiosi giuristi stranieri.

L’evento si terrà mercoledì 22 gennaio 2014, dalle ore 8.30 alle 18.00 presso l’Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Milano ed è stato accreditato per 6 crediti formativi.

Programma

 

8 novembre 2013, Venezia.

Presente e futuro del Diritto penale europeo. Seminario in ricordo di Joachim Vogel

Si è tenuto l’8 novembre 2013 presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia il convegno “Presente e futuro del Diritto penale Europeo”, dedicato a Joachim Vogel, giurista tedesco e professore di Diritto Penale all'università LMU Monaco scomparso il 17 agosto 2013 in un tragico incidente in Canal Grande. All’incontro hanno partecipato il rettore di Ca’ Foscari Carlo Carraro, il sindaco Giorgio Orsoni e Stephan Lorenz, preside della Facoltà di Giurisprudenza LMU Monaco.

Vi è stato un ricordo del professore scomparso da parte del prof. Ulrich Sieber, direttore del Max Planck Institute for Foreign and International Criminal Law di Monaco di Baviera.

Al seminario i relatori – Carmelita Camardi, Alessandro Bernardi, Luigi Foffani, Lorenzo Picotti, Cristoph Burchard, Dominik Brodowski, Roberto Belelli; conclusioni del sostituto procuratore della Repubblica, Maristella Cerato – hanno discusso delle problematiche relative agli ordinamenti penali degli Stati membri e del loro rapporto con il diritto penale europeo, anche in riferimento al contributo offerto dal compianto Prof. Vogel nel corso di questi anni.

 

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NOVITÀ LEGISLATIVE

 

5 dicembre 2013. Il Consiglio dei Ministri ha approvato uno schema di decreto legislativo per il recepimento della direttiva 2010/64 sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali

In tale data il CdM, su proposta del Ministro per gli affari europei e dei Ministri di settore, ha approvato quattordici schemi di decreti legislativi tra cui quello per il recepimento della direttiva europea in oggetto.

 

27 novembre 2013. La Commissione Europea ha presentato tre proposte di direttiva e due raccomandazioni in attuazione della road map per il rafforzamento dei diritti processuali dei cittadini europei coinvolti in procedimenti penali.

In particolare, si tratta:

- della proposta di direttiva sul rafforzamento del principio di presunzione di innocenza e sul diritto di essere presente al proprio processo (COM(2013) 821/2);

- della proposta di direttiva sui diritti procedurali dei minori indagati o imputati nell'ambito di procedimenti penali (COM(2013) 822/2);

- della proposta di direttiva sull'accesso provvisorio al gratuito patrocinio per indagati o imputati sottoposti a misure privative della libertà e sul gratuito patrocinio nei procedimenti di esecuzione del M.A.E. (COM(2013) 824/2);

- della raccomandazione relativa alle garanzie processuali per soggetti vulnerabili indagati o imputati nell'ambito di procedimenti penali (C(2013) 8178/2);

- della raccomandazione relativa al diritto all'accesso al gratuito patrocinio per soggetti indagati o imputati nell'ambito di procedimenti penali (C(2013) 8179/2).

 

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GIURISPRUDENZA

 

Corte Cost., ordinanza n. 279 del 22 novembre 2013

Nella decisione la Consulta ha dichiarato l’inammissibilità dell’intervento additivo proposto dai Tribunali di Venezia e Milano (dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 147 c.p. in modo da rendere possibile un rinvio dell’esecuzione della pena da parte del giudice) per la pluralità delle soluzioni normative che potrebbero essere adottate

Tuttavia, ha riconosciuto “l’effettiva sussistenza del vulnus denunciato dai rimettenti e la necessità che l’ordinamento si doti di un rimedio idoneo a garantire la fuoriuscita dal circuito carcerario del detenuto che sia costretto a vivere in condizioni contrarie al senso di umanità”.

In particolare, si legge ancora nella pronuncia, “come ha rilevato fondatamente la sentenza Torreggiani, considerate le dimensioni strutturali del sovraffollamento carcerario in Italia è facile immaginare che le autorità penitenziarie non siano sempre in grado di dare esecuzione alle decisioni dei magistrati di sorveglianza e di garantire ai reclusi condizioni detentive conformi alla CEDU. Perciò deve riconoscersi che il sovraffollamento carcerario può nella realtà assumere dimensioni e caratteristiche tali da tradursi in trattamenti contrari al senso di umanità e da rendere al tempo stesso impraticabili i rimedi ‘interni’ di cui si è parlato. In questi casi occorre un rimedio estremo, il quale, quando non sia altrimenti possibile mediante le ordinarie misure dell’ordinamento penitenziario, permetta una fuoriuscita del detenuto dal circuito carcerario, eventualmente correlata all’applicazione nei suoi confronti di misure sanzionatorie e di controllo non carcerarie”.

In definitiva, la Consulta riconosce l’intollerabilabilità del sovraffollamento carcerio, che determina un trattamento detentivo contrario al senso di umanità, in violazione degli artt. 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione quest’ultimo all’art. 3 della CEDU, ma rinvia al legislatore il compito di configurare uno strumento normativo che impedisca il protrarsi di tale sitazione.

Leggi la sentenza

 

Corte eur. dir. uomo, sentenza Delfi AS c. Estonia del 10 ottobre 2013

Con questa decisione la Corte di Strasburgo ha stabilito che non viola la libertà di espressione garantita dall’art. 10 la condanna, all’interno di uno Stato membro, del gestore del portale di notizie online al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti dalla persona offesa dai commenti degli utenti.

I giudici europei hanno precisato, infatti, che per risolvere la questione occorre prendere in considerazione il contesto dei commenti, le misure poste in essere per prevenire o rimuovere i commenti diffamatori, la responsabilità degli effettivi autori dei commenti in alternativa alla responsabilità della società e le conseguenze delle procedure nazionali.

Leggi la sentenza

 

Conclusioni dell’avvocato generale nelle cause riunite C-293/12 e C-594/12, Digital Rights Ireland Seitlinger e.a.

Secondo l’avvocato generale Cruz Villalón la direttiva sulla conservazione dei dati è incompatibile con la Carta dei diritti fondamentali

 

Nelle sue conclusioni in data odierna l’avvocato generale Pedro Cruz Villalón ha sostenuto che la direttiva 2006/24/CE sulla conservazione dei dati è nel suo complesso incompatibile con il requisito, sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, secondo cui qualsiasi limitazione dell’esercizio di un diritto fondamentale deve essere prevista dalla legge. In particolare, ad avviso dell’avvocato generale la direttiva costituisce un’ingerenza grave nel diritto fondamentale dei cittadini al rispetto della vita privata, istituendo un obbligo per i fornitori di servizi di comunicazioni telefoniche o elettroniche di raccogliere e conservare i dati sul traffico e sull’ubicazione di tali comunicazioni.

L’avvocato generale ha sottolineato al riguardo che l’utilizzo dei dati può consentire una mappatura tanto fedele quanto esaustiva di una parte importante dei comportamenti di una persona rientranti strettamente nell’ambito della sua vita privata, se non un ritratto completo e preciso della sua identità privata. Esiste, peraltro, un rischio elevato che i dati conservati siano utilizzati a fini illeciti, potenzialmente lesivi della vita privata, oppure, più in generale, fraudolenti o malevoli. Tali dati non sono conservati infatti dalle pubbliche autorità, né sotto il controllo diretto di queste, ma dai fornitori stessi dei servizi di comunicazione elettronica. Inoltre, la direttiva non prevede che i dati debbano essere conservati nel territorio di uno Stato membro. Essi possono di conseguenza essere accumulati in luoghi imprecisati del ciberspazio.

Alla luce di tale ingerenza grave la direttiva avrebbe dovuto, anzitutto, stabilire i principi fondamentali che dovevano regolare la definizione delle garanzie minime inquadranti l’accesso ai dati raccolti e conservati e l’utilizzo di questi.

Orbene la direttiva – che peraltro non disciplina l’accesso ai dati raccolti e conservati, né il loro utilizzo – rimanda agli Stati membri il compito di definire e istituire tali garanzie Così facendo la direttiva non rispetta l’obbligo, previsto dalla Carta, secondo cui qualsiasi limitazione dell’esercizio di un diritto fondamentale deve essere prevista dalla legge. Tale requisito va infatti oltre un criterio puramente formale. Il legislatore dell’Unione, infatti, nell’adottare un atto che, come nel caso della direttiva sulla conservazione dei dati, impone obblighi che costituiscono gravi ingerenze nei diritti fondamentali dei cittadini dell’Unione, deve assumersi la propria parte di responsabilità stabilendo quantomeno i principi che devono presiedere alla definizione, alla fissazione, all’applicazione e al controllo del rispetto di tali garanzie. È proprio tale inquadramento che permette di valutare la portata che comporta in concreto tale ingerenza nel diritto fondamentale e che può pertanto rendere quest’ultima tollerabile o meno dal punto di vista costituzionale.

L’avvocato Cruz Villalón considera inoltre la direttiva sulla conservazione dei dati incompatibile con il principio di proporzionalità in quanto essa impone agli Stati membri di garantire che i dati siano conservati per un periodo la cui durata massima è fissata in due anni. Da un lato, egli ritiene che tale direttiva persegua un fine ultimo perfettamente legittimo, ossia garantire la disponibilità dei dati raccolti e conservati al fine di accertare, indagare e perseguire reati gravi e che essa possa essere considerata adeguata nonché, fatte salve le garanzie di cui deve essere munita, necessaria alla realizzazione di tale obiettivo ultimo. Dall’altro, non ha rinvenuto, nelle diverse prese di posizione sottoposte alla Corte a sostegno della proporzionalità della durata del periodo di conservazione dei dati, nessuna giustificazione sufficiente perché il periodo di conservazione dei dati che gli Stati membri devono fissare non possa restare entro un limite inferiore a un anno.

Per quanto riguarda gli effetti nel tempo dell’invalidità constatata, l’avvocato generale propone, dopo aver ponderato i diversi interessi presenti nella specie, di sospendere gli effetti della constatazione dell’invalidità della direttiva per dar tempo al legislatore dell’Unione di adottare le misure necessarie per porre rimedio all’invalidità accertata, restando inteso che tali misure devono essere adottate entro un lasso di tempo ragionevole.

Egli ha rilevato, da un lato, che non vi sono dubbi circa la rilevanza e anche l’urgenza degli obiettivi ultimi della restrizione dei diritti fondamentali di cui trattasi. Dall’altro, i motivi di invalidità constatati sono di natura particolare. La direttiva è invalida per effetto della mancanza di inquadramento sufficiente delle garanzie disciplinanti l’accesso ai dati raccolti e conservati e il loro impiego (qualità della legge), a cui tuttavia può essere stato posto rimedio nell’ambito delle misure di trasposizione adottate dagli Stati membri. Nondimeno, come risulta dagli elementi forniti alla Corte, gli Stati membri si sono generalmente avvalsi con moderazione delle loro competenze per quanto attiene alla durata massima del periodo di conservazione dei dati.

 

 

Sentenza del 28 novembre 2013, nelle cause C-280/12 PConsiglio / Fulmen e Mahmoudian e C-348/12 P Consiglio Support & Procurement Kala Naft Co.

La Corte conferma la validità degli atti del Consiglio dell’UE che congelano i capitali della Kala Naft nell’ambito delle misure restrittive adottate nei confronti dell’Iran allo scopo di impedire la proliferazione nucleare

 

Per esercitare pressioni sull’Iran affinché ponga fine alle attività nucleari che presentano un rischio di proliferazione e alla messa a punto di sistemi di lancio di armi nucleari, il Consiglio dell’Unione europea ha adottato una serie di decisioni e regolamenti che congelano i capitali delle persone e delle entità riconosciute dal Consiglio come implicate nella proliferazione nucleare. Le persone e le entità interessate sono indicate in un elenco allegato a tali regolamenti con una motivazione, apportata dal Consiglio, per l’iscrizione di ciascuna di esse.

La Manufacturing Support & Procurement Kala Naft Co. («Kala Naft») e la Fulmen sono società iraniane. Il sig. Fereydoun Mahmoudian è azionista maggioritario e presidente del consiglio di amministrazione della Fulmen. Le due società e il sig. Mahmoudian erano stati designati, con decisioni del Consiglio, come coinvolti nel programma nucleare dell’Iran e, pertanto, i loro nomi erano stati iscritti nell’elenco allegato ai regolamenti che prevedono il congelamento dei capitali di tali persone ed entità.

Essi hanno agito dinanzi al Tribunale chiedendo l’annullamento delle decisioni e dei regolamenti con i quali le misure restrittive erano state adottate o mantenute nei loro confronti. Con sentenza del 25 aprile 2012, il Tribunale ha constatato che il Consiglio aveva commesso diverse violazioni, tra cui in particolare un errore di diritto riguardo alla nozione di «implicazione nella proliferazione nucleare», nonché un errore di valutazione dei fatti, dato che il Consiglio non aveva fornito la prova delle accuse mosse contro la Kala Naft. Di conseguenza, il Tribunale ha annullato gli atti del Consiglio nella parte in cui riguardavano quest’ultima. Con sentenza del 21 marzo 2012, il Tribunale ha, poi, annullato le decisioni e i regolamenti nella parte in cui riguardavano l’iscrizione del nome della società Fulmen e del sig. Mahmoudian in quanto direttore della stessa, poiché il Consiglio non aveva fornito la prova della loro implicazione nella proliferazione nucleare.

Il Consiglio ha proposto allora impugnazioni dinanzi alla Corte di giustizia chiedendo l’annullamento di tali sentenze del Tribunale.

Per quanto riguarda la sentenza Kala Naft, la Corte ha annullato la sentenza del Tribunale e ha mantenuto l’iscrizione della Kala Naft negli elenchi. Alla luce della normativa europea, da un lato, e della risoluzione del Consiglio di sicurezza, dall’altro, la Corte ha dichiarato che la semplice commercializzazione di attrezzature e tecnologie essenziali destinate all’industria del gas naturale e del petrolio poteva essere considerata come un sostegno alle attività nucleari dell’Iran. Interpretando le norme in maniera diversa il Tribunale ha commesso un errore di diritto. La Corte ha ricordato poi che, se uno dei motivi addotti dal Consiglio per l’iscrizione di una persona o entità negli elenchi è fondato e costituisce di per sé una base sufficiente per sostenere una decisione di misure restrittive, la circostanza che altri di questi motivi non lo siano non può giustificare l’annullamento di tale decisione. La Corte ha affermato che il Consiglio poteva ritenere che, tenuto conto del suo ruolo di centrale di acquisto della compagnia petrolifera nazionale iraniana, la Kala Naft partecipasse all’acquisizione di beni e tecnologie vietati.

Per quanto riguarda la sentenza Fulmen e Mahmoudian, la Corte ha respinto l’impugnazione del Consiglio, il Consiglio non ha fornito elementi di prova riguardo alle ragioni specifiche che consentono di opporsi a una tale divulgazione, né una sintesi delle informazioni riservate dinanzi al giudice dell’Unione e, pertanto, non aveva dimostrato la pretesa implicazione della Fulmen e del sig. Mahmoudian nella proliferazione nucleare.

 

·         violazione dell’articolo 3 CEDU

 

Sentenza del 12 dicembre 2013, Kanakis c. Grecia, ricorso n. 2 n. 40146/11

Il ricorrente, Vassilios Kanakis, è un cittadino greco nato nel 1952. Attualmente sta scontando una pena detentiva nel carcere di Larissa, in Grecia.

Sospettato di aver organizzato con un complice un’operazione di traffico internazionale di stupefacenti, il sig. Kanakis è stato fermato nel 2001 e condannato all’ergastolo con una prima sentenza pronunciata nell’aprile 2002, successivamente a seguito di appello e ricorso di cassazione deciso con sentenza nel 2008.

Invocando l’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o trattamento degradante), il sig. Kanakis lamenta con il suo ricorso alla Corte EDU le condizioni di detenzione sofferte nelle quattro prigioni in cui ha scontato la pena, in particolare alla luce del sovraffollamento di tali strutture.

Con la sentenza del 12 dicembre 2013, la Corte EDU ha riconosciuto, nel caso di specie, una violazione dell’articolo 3 della Convenzione EDU e ha accordato l’importo di euro 8.500 a titolo di risarcimento del danno morale patito, unitamente all’importo di euro 2.500 a titolo di costi e spese.

 

 

Sentenza del 12 dicembre 2013, Khuroshvili c. Grecia, ricorso n. 58165/10

Il ricorrente, Besik Khuroshvili, è un cittadino georgiano che è nato nel 1970.

Il caso de quo riguardava la sua presenza illegale nel territorio greco. Infatti, il sig. Khuroshvili è stato arrestato tre volte per un periodo di tre mesi, per essere poi rilasciato ogni volta, in quanto la sua espulsione dallo stato greco non poteva essere eseguita dato che egli era sprovvisto di documenti in grado di provare la sua identità.

Invocando l’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o trattamento degradante), il sig. Khuroshvili lamentava soprattutto le condizioni della sua detenzione nel centro di repressione dell’immigrazione clandestina di Aspropyrgos. Altresì, richiamando l’articolo 5, paragrafi 1 e 4 (diritto alla libertà e alla sicurezza e il diritto di decidere senza indugio sulla legittimità della sua detenzione), egli ha affermato che nessuna azione era stata intrapresa dalle autorità per eseguire la sua espulsione e che nessuna autorità si è pronunciata sulla legittimità della la sua detenzione.

Con la sentenza del 12 dicembre 2013, la Corte EDU ha riconosciuto, nel caso di specie, una violazione dell’articolo 3 della Convenzione EDU, mentre non ha riscontrato alcuna violazione dell’articolo 5, §1 - per il periodo dal 12 giugno al 12 dicembre 2010. Altresì, la Corte ha dichiarato che vi era stata una violazione dell’articolo 5, §4 - per il periodo dal 12 giugno al 12 dicembre 2010 e ha accordato l’importo di euro 8.000 a titolo di risarcimento del danno morale patito.

 

 

Sentenza del 10 dicembre 2013, Murray c. Paesi Bassi, ricorso n. 10511/10

Il ricorrente, James Clifton Murray, è un cittadino olandese nato nel 1953. Egli è detenuto in un istituto correzionale sull'isola di Aruba, parte del Regno dei Paesi Bassi, nel sud dei Caraibi. Tuttavia, dalle informazioni ricevute dalla Corte risulta che egli si trovi attualmente in una casa di cura sull'isola di Curaçao a causa di problemi di salute.

Il caso di specie verte sulla legittimità della detenzione del signor Murray, che ha avuto inizio in seguito alla sua condanna per omicidio nel marzo 1980. Era stato, infatti, accertato, che egli aveva ucciso un nipote di 6 anni di una sua ex ragazza come vendetta per la fine della loro relazione e, pertanto, il sig. Murray era stato condannato all’ergastolo dal giudice delle Antille olandesi.

Nonostante egli abbia proposto appello, richiesta di revisione e ripetute richieste di grazia, nessuna di tali sue richieste ha avuto successo.

Fino al 2000 ha scontato la sua pena in una prigione di stato a Curaçao, per poi essere trasferito all’Aruba Correctional Institution. Nel settembre 2012 i giudici di Aruba hanno sottoposto la sentenza di condanna del sig. Murray a revisione periodica e, tenendo conto di una serie di relazioni psicologiche, dalle quali emergeva che egli soffriva di problemi di salute mentale, hanno deciso che la detenzione del signor Murray dovesse comunque continuare.

Con il suo ricorso dinanzi alla Corte EDU, il sig. Murray ha allegato una pretesa violazione dell’articolo 5 della Convenzione EDU, posto che egli era stato condannato all’ergastolo senza possibilità di periodica revisione da parte di un tribunale e senza speranza di liberazione. Egli ha invocato l'articolo 3 anche in relazione alle condizioni della sua detenzione, sostenendo in particolare che le autorità carcerarie non proteggono i detenuti dalla violenza di altri detenuti, che egli stesso era stato maltrattato da altri prigionieri, che non era aveva beneficiato di un regime speciale a fronte delle sue condizioni mentali a causa del suo ergastolo e che alla fine del 2010 e all'inizio del 2011 la pioggia aveva allagato le celle dei prigionieri.

Tuttavia, con la sua sentenza del 10 dicembre 2013 la Corte ha negato che vi fosse stata, nel caso di specie, una violazione dell’articolo 3 della Convenzione.

 

 

Sentenza del 5 dicembre 2013, Sharifi c. Austria, ricorso n. 60104/08

Il ricorrente, Wadjed Sharifi, è un cittadino afgano, nato nel 1985 e vive a Feres (Grecia).

La vicenda trae origine dal trasferimento dall’Austria alla Grecia da parte delle autorità austriache. Nel mese di novembre 2007, il signor Sharifi ha lasciato l’Afghanistan e ha attraversato Pakistan, Iran, Turchia, Grecia e Italia prima di arrivare in Austria, dove è stato arrestato dalla polizia. Nell’agosto del 2008, le autorità austriache hanno respinto la sua domanda di asilo e hanno ordinato il suo trasferimento in Grecia, in quanto, ai sensi del diritto austriaco e del diritto dell’Unione europea (“regolamento Dublino II”), la Grecia è stata il primo stato membro dell’Unione europea in cui il sig. Sharifi è entrato.

L’odierno ricorrente ha proposto due ricorsi contro tale decisione, ma non ha avuto successo ed è stato trasferito in Grecia nel mese di ottobre 2008.

Con il suo ricorso alla Corte EDU, egli ha sostenuto che il suo trasferimento in Grecia lo aveva esposto a trattamenti contrari all’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o trattamento degradante), in quanto, a parer suo, l’Austria non era in grado di trattare correttamente le domande in materia di asilo e di fornire condizioni adeguate ai richiedenti asilo.

Con la sentenza del 5 dicembre 2013, la Corte EDU ha negato che, nel caso di specie, vi fosse stata una violazione del predetto articolo. 

 

 

Sentenza del 5 dicembre 2013, Kutepov c . Russia, ricorso n. 13182/04

Il ricorrente, Valeriy Kutepov, è un cittadino russo nato nel 1968 e attualmente sta scontando una pena detentiva in carcere.

La vicenda trae origine da un procedimento penale contro il signor Kutepov avviato a seguito della scoperta del corpo smembrato di un uomo e del ritrovamento di un’ascia macchiata di sangue nell’appartamento della madre del signor Kutepov. Sospettato di omicidio, egli è stato arrestato nel novembre 2002 e nel giugno 2003 è stato condannato per omicidio alla reclusione di 16 anni.

Nell’ottobre 2003 la sua condanna è stata confermata dalla Corte Suprema. Tuttavia, nel luglio 2010, il Presidium della Corte Suprema ha ordinato una revisione del caso perché l’odierno ricorrente non era stato rappresentato da un avvocato nel corso del procedimento nel 2003.

Nel settembre 2010, la condanna del signor Kutepov è stata confermata ancora una volta, ma la sua pena è stata ridotta a 14 anni di reclusione.

Con il suo ricorso alla Corte EDU, fondato sull’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti) , il sig. Kutepov lamentava di non aver ricevuto cure mediche adeguate durante la sua detenzione. Segnatamente, egli ha affermato che le autorità russe non avevano diagnosticato né trattato adeguatamente la sua mielopatia.

Con la sentenza del 5 dicembre 2013, la Corte EDU ha dichiarato che, nel caso di specie, vi era stata una violazione del predetto articolo 3 e ha disposto la cifra di € 15.000 a titolo di equo risarcimento del danno morale patito.

 

 

Sentenza del 5 dicembre 2013, Yevgeniy Gusev c. Russia, ricorso n. 28020 / 05

Il ricorrente, Yevgeni Gusev, è un cittadino russo nato nel 1952 e residente a Volgograd (Russia).

All’epoca dei fatti egli era presidente della Vostok -Plus, una società azionista della Volga Aviaexpress Airlines ed è stato arrestato nell’ottobre 2003 con l’accusa dir frode, falsificazione e uso di falsi in relazione ad un aereoYak 42 .

Condannato nel giugno 2005 a quattro anni di reclusione, con sentenza confermata in appello nell’ottobre 2005, sentenza condizionalmente sospesa per due anni, egli è stato poi rilasciato in libertà vigilata.

Con il suo ricorso alla Corte EDU, fondato sull’articolo 3 (divieto di trattamenti

trattamenti inumani o degradanti) , il ricorrente ha sostenuto che i giorni in cui è stato trasportato in tribunale in occasione del processo, è stato privato del cibo e del sonno. Ha sporto anche diverse denunce in relazione alle condizioni della sua detenzione, invocando l’articolo 5, paragrafi 3 e 4 (diritto alla libertà e alla sicurezza), e sostenuto altresì che la sua detenzione era basata su motivi sufficienti e che non vi era stato un effettivo controllo giurisdizionale.

Con la sentenza del 5 dicembre 2013, la Corte EDU ha dichiarato che, nel caso di specie, vi erano state violazioni dell’articolo 3, dell’articolo 5, § 3 e § 4, e ha accordato un equo risarcimento del danno morale patito per un importo pari a € 15.000, oltre a € 6.100 per costi e spese.

 

 

Sentenza del 3 dicembre 2013, Bulea c. Romania, ricorso n. 27804/10

Il ricorrente, Bogdan Ioan Bulea, è un cittadino romeno nato nel 1973.

Il caso trae origine dalle condizioni della sua detenzione in prigione a seguito di una condanna. Nel gennaio 2003, il sig Bulea è stato arrestato e, all’esito ad un procedimento penale, è stato condannato nel marzo 2007 per truffa aggravata e uso di documenti falsi.

Tale sentenza è stata confermata in appello nel marzo 2010. Il sig Bulea è stato condannato a dieci anni di reclusione e a pagare allo Stato 3.740.901.433 lei rumeno (ROL), somma che egli aveva ricevuto illegalmente.

Tra il novembre 2003 e l'inizio della sua condanna nel mese di aprile 2010, al signor Bulea è stato vietato di lasciare il paese. Egli ha fatto numerose istanze per far rilevare che la durata di tale divieto era eccessiva e che, pertanto, esso doveva essere annullato. Nondimeno, detto divieto è stato mantenuto sulla base del fatto che i reati per i quali era stato condannato erano gravi e che egli aveva privato la Tesoreria dello Stato di una grossa somma. In particolare, la lunghezza del divieto in questione sarebbe stata giustificata dalla complessità del caso e dai tentativi del signor Bulea di ritardare le indagini.

Dopo aver trascorso alcuni mesi in carcere, il 15 luglio 2010 il sig. Bulea è stato rilasciato per tre mesi, dopo che la sua domanda di rilascio temporaneo era stata accolta dai giudici rumeni. Tuttavia, terminato questo periodo egli non è tornato a scontare il resto della condanna, pertanto è stato spiccato un mandato internazionale per il suo arresto.

Basandosi in particolare sull'articolo 3 della Convenzione , il sig. Bulea ha lamentato le condizioni nelle quali era stato detenuto, segnatamente il sovraffollamento del carcere e l’assenza di luce naturale e ventilazione, violazione ritenuta effettivamente sussistente anche dalla Corte con la sua sentenza del 3 dicembre 2013.

 

 

Sentenza del 3 dicembre 2013, Ghorbanov e a. c. Turchia, ricorso n. 28127/09

I ricorrenti nel caso di specie sono 19 cittadini uzbeki, che sono nati tra il 1969 e il 2008, e che attualmente vivono in clandestinità in Turchia.

Il caso riguardava la deportazione dei ricorrenti da parte delle autorità turche in Iran. I ricorrenti sono, infatti, membri di quattro famiglie, che vivevano in Uzbekistan e che, dopo aver lasciato l'Uzbekistan, hanno intrapreso un viaggio attraverso il Tagikistan, l'Afghanistan e il Pakistan, per stabilirsi infine in Iran nel 2001. Hanno ottenuto lo status di rifugiati dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati. Tuttavia, sono fuggiti in Turchia nel settembre 2007, dove sono stati rilasciati certificati da parte dell'UNHCR, hanno ricevuto razioni di cibo, e mandavano i loro figli a scuola.

Con il ricorso dinanzi alla Corte EDU, i ricorrenti hanno sostenuto che il 12 settembre 2008 erano stati invitati ad andare alla stazione di polizia di Van (Turchia), per ricevere le razioni di cibo e materiale scolastico ma che, in realtà, sono stati detenuti e forzatamente deportati in Iran più tardi quella stessa sera. Una settimana dopo sono tornati in Turchia illegalmente, ma sono stati prelevati dalle loro case in data 11 ottobre 2008 e deportati di nuovo.

Altresì, essi hanno affermato che erano stati abbandonati in pieno inverno in un villaggio turco al confine con l’Iran e costretti a camminare fino al confine iraniano. Dopo aver chiesto aiuto alla gendarmeria iraniana, erano stati arrestati per due giorni e poi deportati in Turchia.

12 di loro erano minorenni al momento dei fatti in questione.

Basandosi in particolare sull'articolo 3, i ricorrenti lamentano la loro ripetuta deportazione sommaria dalla Turchia all'Iran, in assenza di un qualsiasi ordine di deportazione. Essi hanno inoltre richiamato in particolare l'articolo 5, paragrafi 1 e 2,lamentando l’illegittimità della loro detenzione prima di essere espulsi dalla Turchia all'Iran nell'ottobre 2008 e che non erano state fornite loro motivazioni della privazione della loro libertà né possibilità di impugnare tale provvedimento privativo della loro libertà.

La Corte EDU ha ritenuto sussistenti, nel caso di specie, una violazione dell’articolo 3 in relazione alla deportazione dei ricorrenti dell’11 ottobre 2008; una violazione dei paragrafi 1 e 2 dell’articolo 5 riguardo al medesimo evento e ha accordato un importo di 10.000 euro a titolo di risarcimento del danno morale a ciascuno dei 19 ricorrenti, oltre alla somma di 3.350 a titolo di costi e spese.

 

 ·         Violazione dell’articolo 5 della CEDU

 

Sentenza del 17 dicembre 2013, Raudevs v. Lettonia, ricorso n. 24086/03

Il ricorrente, Mārtiņš Raudevs, è un cittadino lettone nato nel 1941 e vive a Riga.

Nel novembre 2000 ha inviato lettere alle istituzioni lettoni e alla Banca mondiale, in cui accusava i giudici lettoni di corruzione e frode. All’epoca di tali fatti, la diffamazione di funzionari statali costituiva un reato, e il sig. Raudevs venne presto sottoposto a un procedimento penale. Nel settembre 2002 è stato dichiarato colpevole di diffamazione, tuttavia non è stato ritenuto imputabile in quanto si riteneva soffrisse di una malattia mentale.

Pertanto, il tribunale ha ordinato che fosse sottoposto a trattamento medico obbligatorio in un ospedale psichiatrico, con sentenza confermata in appello nel dicembre 2002.

Nell'ottobre del 2003 la Corte costituzionale lettone ha dichiarato incostituzionale la previsione di una responsabilità penale per la diffamazione di funzionari statali e ha, così, abrogato il reato on effetto dal 1° febbraio 2004. Ciononostante il 30 luglio 2004 venne emanato un ordine di confinamento del sig. Raudevs e la polizia lo ha condotto in un ospedale psichiatrico.

In seguito a ricorso del sig. Raudevs, in cui lamentava l’illegittimità di tale ordine di confinamento, in un primo momento il pubblico ministero ha confermato la sua detenzione come legittima, mentre successivamente i giudici lettoni hanno revocato la decisione di ordinare il suo confinamento ed egli è stato rilasciato.

La Corte ha riscontrato, nel caso di specie, anzitutto una violazione dell’articolo 5, §1, in quanto il sig. Raudev era stato sottoposto a trattamento medico obbligatorio sulla base di una decisione illegittima, posto che egli non aveva mai sofferto di una malattia mentale e perché l'ordine aveva perso la sua forza dopo le modifiche alla legge sul reato di reato di diffamazione per effetto della citata sentenza della Corte costituzionale. Altresì, la Corte ha dichiarato che, nel caso di specie, vi erano state violazioni anche dei paragrafi 4 e 5 del citato articolo 5, in quanto il suo caso del ricorrente non era stato sottoposto a controllo giurisdizionale entro un termine ragionevole ed egli non aveva potuto ottenere alcun risarcimento per la detenzione illegittima subita.

A titolo di risarcimento del danno morale patito, la Corte ha riconosciuto la somma di 10.000 euro al ricorrente.

 

 

Sentenza del 12 dicembre 2013, Latipov c. Russia, ricorso n. 77658/11

Il ricorrente, Abdulvosi Khakimovich Latipov, cittadino tagico nato nel 1968 ed è scomparso alla fine del 2012.

Egli aveva dichiarato di aver lavorato come guarda del corpo di un leader dell’opposizione tagica tra il 1992 e il 2001, dopo lo scoppio della guerra civile in Tagikistan. Nel maggio 2001 è entrato nel territorio russo.

Nell’agosto 2001 le autorità tagiche hanno spiccato un mandato d’arresto nei suoi confronti, in quanto egli era accusato di aver organizzato una banda criminale che avrebbe operato dal 1998 al 2001. Il sig. Latipov è stato arrestato in territorio russo dalle competenti autorità richieste e messo in un centro di detenzione in attesa di essere estradato in Tagikistan. Nell’ottobre 2012, egli è scomparso in circostanze misteriose.

Nel suo ricorso depositato alla Corte EDU, il sig. Latipov lamentava in particolare che la sua eventuale estradizione in Tagikistan avrebbe comportato un rischio di subire trattamenti inumani o degradanti proibiti dall’articolo 3 della Convenzione EDU. Quanto alla sua misteriosa sparizione, l’avvocato del sig. Latipov sostiene che si tratterebbe di un’operazione segreta nella quale erano coinvolte le autorità russe.

La Corte EDU ha, pertanto, richiesto al governo russo di presentare osservazioni quanto al suo obbligo di proteggere il sig. Latipov dal rischio di trasferimento in Tagikistan, sul suo obbligo di condurre indagini effettive circa la misteriosa sparizione del sig. Latipov e sull’esistenza di un ricorso interno che consenta di esaminare l’allegato rischio di subire trattamenti disumani in Tagikistan.

Con la sentenza del 12 dicembre 2013, la Corte ha affermato che non vi era, nel caso di specie, alcuna violazione dell’articolo 3 della Convenzione EDU sotto il profilo degli obblighi del governo russo di proteggere il sig. Latipov dal rischio di trasferimento in Tagikistan, di condurre indagini effettive circa la sua misteriosa sparizione e su eventuali implicazioni delle autorità russe in tale sparizione, nonché quanto all’eventuale trasferimento del sig. Latipov in Tagikistan.

Per contro, la Corte ha ritenuto sussistente una violazione del paragrafo 1 dell’articolo 5 della predetta Convenzione relativamente alla detenzione del sig. Latipov dal 21 agosto al 15 ottobre 2012 e ha disposto ai sensi dell’articolo 39 del regolamento della Corte la misura provvisoria della non estradizione del ricorrente verso il Tagikistan, misura che rimarrà in vigore sino a quando non diventerà definitiva la presente sentenza o fino a quando non sarà resa un’altra pronuncia nel caso di specie.

 

 

Udienza della Gran Camera dell’11 dicembre 2013, Hassan c. Regno Unito, ricorso n. 29750/09

Il ricorrente, Khadim Resaan Hassan, è un cittadino iracheno che ora vive in Siria. Prima dell’invasione dell’Iraq nel marzo 2003 da parte di una coalizione di forze armate guidata dagli Stati Uniti d’America, il sig. Hassan era un direttore generale nella segreteria nazionale del Partito Ba'ath, all’epoca partito di governo sotto la guida di Saddam Hussein.

Il sig. Hassan è stato anche un generale di El Quds Army, l'esercito privato del partito Ba'ath.

Ha vissuto a Um Qasr, una città portuale nella regione di Bassora, nel sud-est dell’Iraq.

Il caso in esame riguarda la cattura del fratello di Hassan, Tarek, da parte delle forze armate britanniche e la sua detenzione nel Camp Bucca in Iraq (vicino a Um Qasr).

Il ricorrente sostiene che Tarek si trovasse sotto il controllo delle forze britanniche e che il suo cadavere sia stato successivamente ritrovato e portasse i segni di tortura e di un’esecuzione.

Nell’aprile 2003, dopo aver occupato Bassora, l’esercito britannico ha iniziato ad arrestare membri di alto rango del Partito Ba'ath. Secondo il signor Hassan, egli andò a nascondersi in questo momento e sostiene che nell’aprile 2003 l'esercito britannico sia andato a casa sua nelle prime ore del mattino e abbia portato via Tarek. Ad altri membri della sua famiglia era stato detto dalle autorità britanniche che Tarek era stato preso come ostaggio e che sarebbe stato rilasciato solo quando il signor Hassan si sarebbe arreso.

Il governo britannico ha ammesso che le forze britanniche hanno arrestato Tarek ma sostiene che non era un ostaggio, bensì che era stato arrestato come sospetto prigioniero di guerra, secondo la Convenzione di Ginevra, fino a quanto il suo status avrebbe potuto essere determinato. Secondo il governo britannico, nel contesto di un conflitto armato internazionale, le disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo o non sarebbero del tutto applicabili, o dovrebbero essere applicate tenendo conto del diritto dei conflitti armati, tra cui la Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949.

Sia il governo britannico che il sig. Hassan accettano che Tarek sia stato catturato dalle forze britanniche e condotto a Camp Bucca, un centro di detenzione gestito dalle forze degli Stati Uniti. Tuttavia, le forze britanniche hanno esercitato un certo controllo sui detenuti che erano stati arrestati dai militari del Regno Unito, l’entità del quale e le cui conseguenze giuridiche sono contestate, però, dalle parti.

Il governo britannico sostiene che, in seguito ad un interrogatorio da parte delle autorità statunitensi e britanniche, Tarek sarebbe stato dichiarato non combattente e rilasciato il o intorno al 12 maggio 2003.

Il sig. Hassan, invece, afferma che Tarek non ha contattato la sua famiglia durante il periodo in cui secondo il governo sarebbe stato liberato. Secondo il signor Hassan, il corpo di Tarek è stato ritrovato a circa 700 chilometri di distanza da Um Qasr, nei pressi di una cittadina a nord di Baghdad, all’inizio del settembre 2003. Egli sostiene che il fratello presentava otto ferite da proiettile nel petto, provenienti da un fucile Kalashnikov, e che le sue mani erano legate con un filo di plastica e avevano molti lividi.

Il governo del Regno Unito sostiene che non vi sono prove indipendenti circa la causa della morte di Tarek e sottolinea che quest’ultimo è stato trovato in una zona che non era mai stata controllata dalle forze britanniche e che i Kalashnikov non sono stati utilizzati dai militari britannici.

Nel 2007 il sig. Hassan ha proposto ricorso al giudice amministrativo britannico al fine di far dichiarare che vi era stata una violazione dei suoi diritti umani sanciti dalla Convenzione europea  dei diritti dell’uomo, che fosse previsto un equo compenso a suo favore e che il governo britannico fosse condannato a svolgere un’inchiesta sulla morte di suo fratello.

Tuttavia, il caso fu archiviato dopo che la corte ha ritenuto che Camp Bucca era un campo degli Stati Uniti, anziché del Regno Unito, e che il Regno Unito non è, perciò, competente a pronunciarsi sulla domanda del sig. Hassan.

Il sig. Hassan ha presentato un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo il 5 giugno 2009. Nella sua domanda, egli sostiene che suo fratello è stato arrestato e detenuto dalle forze britanniche in Iraq e che è stato successivamente ritrovato morto in circostanze inspiegabili. Egli lamenta una violazione ai sensi dell'articolo 5, paragrafi 1, 2, 3 e 4 (diritto alla libertà e alla sicurezza) della Convenzione EDU, in quanto l’arresto e la detenzione del fratello sarebbero state arbitrarie, illegali e prive di garanzie procedurali.

Altresì, egli lamenta ai sensi degli articoli 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti) e 5 che le autorità britanniche avrebbero omesso di effettuare un’indagine sulle circostanze della detenzione di suo fratello, sui maltrattamenti che avrebbe subito e sulla sua morte.

 

 

Sentenza del 28 novembre 2013, Glien c. Germania, ricorso n. 7345/12

Il ricorrente, Christian Glien, è un cittadino tedesco nato nel 1947 ed è attualmente detenuto nella prigione Diez (Germania).

Nel 1997 è stato condannato per vari episodi di abusi sessuali su bambini e condannato a quattro anni di reclusione. Allo stesso tempo, il tribunale ha ordinato la sua detenzione preventiva.

Era stato accertato altresì che il sig Glien era stato diagnosticato da un esperto psichiatrico come affetto da una deviazione sessuale che non era così grave da essere patologico, per cui si era ritenuto che egli avesse agito con piena consapevolezza criminale.

Dopo aver scontato interamente la sua pena detentiva, nel 2001, il signor Glien è stato posto in detenzione cautelare. Dal gennaio 2004, è stato detenuto in un’ala separata del carcere di Diez, prevista per le persone in regime di carcerazione preventiva.

Dopo un tentativo infruttuoso in terapia, egli ha rifiutato tutte le offerte per il trattamento

Nel maggio 2011, il sig. Glien ha chiesto al giudice di ordinare il suo rilascio, facendo riferimento alla sentenza della Corte costituzionale federale del 4 maggio 2011, che, prendendo in considerazione la giurisprudenza della Corte EDU - ha rilevato che i giudici competenti dovevano applicare standard rigorosi quando esaminavano se i detenuti, la cui detenzione preventiva era stata prolungato retroattivamente, dovesse rimanere in regime di detenzione . Tuttavia, la sua richiesta di essere liberato è stata respinta dal Tribunale regionale di Coblenza nel settembre 2011, che ha ritenuto che, nel caso di specie, fossero stati soddisfatti i predetti standard rigorosi fissati dalla sentenza della Corte Costituzionale. In particolare, il giudice ha considerato che il sig. Glien era ancora a rischio di recidiva e di commettere reati anche più gravi, che potrebbero danneggiare seriamente le eventuali vittime. Esso ha inoltre ritenuto, basandosi sulla relazione di un esperto psichiatrico, che il sig. Glien soffrisse di disturbo di personalità antisociale e di una forma di pedofilia non patologica, ma che doveva essere considerato comunque come un disturbo mentale ai fini del Therapy Detention Act.

La decisione di non liberarlo è stata definitivamente confermata dalla Corte costituzionale federale il 19 gennaio 2012 (file n. 2 BvR 2754/11).

Invocando l’articolo 5, §1 (diritto alla libertà e alla sicurezza), il sig. Glien ha lamentato la lunghezza sproporzionata della sua detenzione preventiva, e in particolare il fatto che tale detenzione abbia superato il periodo di dieci anni, che era il massimo di detenzione prevista in base alle disposizioni di legge vigenti al momento della commissione dei suoi reati e della sua condanna. Egli ha inoltre lamentato una violazione del divieto di retroattività della pena ai sensi dell'articolo 7 § 1.

La Corte ha sottolineato che la continuazione della carcerazione preventiva del signor Glien nel carcere di Diez come ordinato dai giudici tedeschi nel settembre 2011 e confermato nel gennaio 2012 era oggetto del ricorso proposto dinanzi a sé.

Il governo tedesco aveva sostenuto che la prolungata detenzione preventiva del signor Glien era giustificata ai sensi del sub-paragrafo (e) dell'articolo 5, §1 della Convenzione EDU in quanto detenzione di una persona "malata di mente".

La Corte ha ritenuto opportuno che fosse stato accertato, nel caos di specie, dall’autorità giudiziaria competente che il sig. Glien soffriva di un disturbo mentale come definito dalla legge tedesca. Nel riesaminare la necessità che egli rimanesse indetenzione preventiva, i giudici tedeschi avevano - in conformità con le norme stabilite dalla già citata sentenza della Corte Costituzionale del 4 maggio 2011 - espressamente stabilito che egli soffriva di un disturbo mentale ai sensi della legge tedesca (“Therapy Detention Act”).

Mentre nella sua giurisprudenza la Corte non aveva stabilito una definizione precisa del termine "persone malate di mente", essa ha sottolineato che le ragioni in forza delle quali era ammissibile la privazione della libertà personale ai sensi dell'articolo 5 della Convenzione dovevano essere interpretate restrittivamente. Tale condizione mentale deve essere di una certa gravità per poter essere considerata come un “vero” disturbo mentale ai sensi dell'articolo 5, § 1, (e) e, secondo la sua giurisprudenza consolidata, la detenzione di una persona come paziente affetto da patologie di salute mentale rientrava nell’articolo 5 soltanto se effettuata in un ospedale, clinica o altro istituto appropriato.

Poteva sembrare che la nozione di "persona non sana di mente" di cui all'articolo 5 § 1 (e) della Convenzione fosse più restrittiva del concetto di "disturbo mentale" di cui al citato Therapy Detention Act. La Corte dubitava che solo personalità asociale del signor Glien, che era stata riscontrata dalle competenti autorità tedesche non essere patologica, potesse essere considerata come una condizione mentale sufficientemente grave da essere classificato come un "vero" disturbo mentale ai sensi dell'articolo 5. Nondimeno, tali autorità avevano ritenuto che il sig. Glien soffrisse di un disturbo mentale ai sensi del Therapy Detention Act anche perché gli era stata diagnosticata una sindrome di pedofilia di natura non patologica.

La Corte ha osservato l'argomento del governo secondo il quale la detenzione del sig. Glien in un'ala separata del carcere, nella quale vi erano le persone in stato di detenzione preventiva, differiva significativamente dall'esecuzione di una sentenza di condanna alla reclusione in prigione. In particolare, il governo aveva fatto riferimento al fatto che i detenuti avevano maggiore libertà di movimento in tale ala del carcere e più possibilità di tempo libero. Tuttavia, la Corte non ha ritenuto che vi fosse un ambiente medico o terapeutico adeguato ad una persona detenuta come un paziente affetto da disturbo mentale.

La Corte ha preso atto delle ampie misure che la Germania aveva adottato, in seguito alle sentenze della Corte EDU riguardanti la detenzione preventiva e alla sentenza della Corte costituzionale federale del 4 maggio 2011, al fine di adeguare l'esecuzione della detenzione preventiva ai requisiti costituzionali e a quelli della Convenzione. In particolare, ha riconosciuto che le misure adottate per fornire alle persone in detenzione preventiva un ambiente significativamente diverso dalla prigionia normale e che periodi di transizione possono essere necessari per adeguare la normativa nazionale e la sua attuazione alle norme della Convenzione.

Tuttavia, la Corte non ha ritenuto che i giudici tedeschi non avessero la possibilità, al tempo del procedimento nei confronti del sig. Glien, di adattare le sue condizioni di detenzione in modo da essere adeguate ad una persona "malata di mente". Avrebbero potuto ordinare il suo trasferimento in un ospedale psichiatrico o in un altro istituto adeguato alle esigenze delle persone affette da disturbi mentali. La legge tedesca già richiamata (“Therapy Detention Act”) prevede espressamente tale possibilità. Pertanto, l’unica alternativa al prolungamento della sua detenzione preventiva in un'ala separata della prigione non sarebbe stato il suo immediato rilascio.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte non ha ritenuto che la detenzione preventiva continuata del sig. Glien fosse giustificata ai sensi dell'articolo 5 § 1 (e), né che tale detenzione potesse essere giustificata sotto qualsiasi altro comma dell'articolo 5 § 1, come era stato sostenuto dal governo tedesco.

Pertanto, vi era stata violazione dell'articolo 5 § 1 della Convenzione EDU.

Quanto, invece, alla violazione dell’articolo 7, la Corte ha ricordato che, come nel caso M. c. Germania, il sig. Glien ha lamentato che la carcerazione preventiva era stata estesa retroattivamente oltre la durata massima consentita dalla legge in vigore al momento del suo reato e della sua condanna. Nel caso M. c. Germania, la Corte aveva ritenuto che la carcerazione preventiva del ricorrente doveva essere classificata come "penale" ai fini dell’articolo 7, §1 nonostante il fatto che tale misura non è stata considerata una sanzione ai sensi del diritto penale tedesco. La sua estensione retroattiva era avvenuta, quindi, in violazione del suo diritto a non ricevere un trattamento sanzionatorio più severo di quello applicabile al momento della commissione del reato.

Un fattore importante nella valutazione se la misura in questione costituisse una sanzione era di considerare se essa era stata imposta in seguito alla condanna per un reato penale. La carcerazione preventiva del signor Glien era stato inflitta, nel caso di specie, insieme alla sua condanna per i summenzionati delitti.

Inoltre, la Corte ha ritenuto che la detenzione non aveva in sostanza differito molto da normale condanna e che tale detenzione preventiva rappresenta una delle misure più gravi che possono essere inflitte ai sensi del diritto penale tedesco.

Pertanto, la Corte ha concluso che la detenzione preventiva del sig. Glien durante il periodo in questione doveva essere classificata come una sanzione ai sensi dell'articolo 7 e che, quindi, vi era stata violazione dell’articolo 7, §1.

 

 ·         Violazione dell’articolo 6 CEDU

 

Sentenza del 17 dicembre 2013, Potcoavă c. Romania, ricorso n. 27945/07

Il ricorrente, Ioan Nicolet Potcoavă, è un cittadino romeno che è nato nel 1969 e vive a Ungheni (Romania). Il caso riguarda la correttezza della condanna per stupro del sig. Potcoavă.

Infatti, egli ha affermato di essere stato arrestato 4 luglio 2002 e di essere stato picchiato durante il viaggio verso la stazione di polizia e poi per il resto della notte al fine di fargli confessare diversi stupri.

Nell'agosto 2003 è stato condannato sulla base della sua confessione, ma questa decisione è stata poi ribaltata in appello nell'ottobre 2003, in quanto la confessione è stata accantonata dato che il ricorrente non era stato assistito da un avvocato durante l’interrogatorio di polizia.

In seguito ad una ulteriore indagine penale, è stato assolto nel mese di ottobre 2006, essendo stato riscontrato che egli aveva un alibi e che le prove contro di lui erano inconcludenti.

Tuttavia, nel settembre 2007 tale sentenza è stata annullata e la Corte della contea, basando la sua decisione sulla predetta confessione del sig. Potcoavă alla polizia, lo ha condannato per stupro e tentato stupro a poco più di un anno e sei mesi di reclusione. Nel frattempo, la sua denuncia per maltrattamenti subiti dalla polizia è stata respinta in quanto infondata.

Invocando in particolare l'articolo 6, paragrafi 1 e 3, lettera c), il sig. Potcoavă ha affermato che il procedimento penale contro di lui non era stato equo soprattutto perché la sua confessione, resa durante il suo fermo di polizia senza l'assistenza di un avvocato, era stata utilizzata come elemento decisivo ai fini della sua condanna.

Con la sua sentenza del 17 dicembre 2013, la Corte EDU ha dichiarato che vi era stata, nel caso di specie, violazione dell’articolo 6, paragrafi 1 e 3, lettera c), della Convenzione e ha accordato l’importo di euro 2.400 a titolo di risarcimento del danno morale patito, oltre a euro 400 a titolo di costi e spese.

 

 

Sentenza del 12 dicembre 2013, Donohoe c. Irlanda

Il ricorrente, Kenneth Donohoe, è un cittadino irlandese, nato nel 1978 ed è residente a Dublino.

Il caso trae origine dal processo e dalla condanna del sig. Donohoe in quanto appartenente ad una

un’organizzazione illegale, l’IRA. La sera del 2 Ottobre 2002, la polizia ha rilevato attività sospette nella zona di Corke Abbey, vicino a Dublino. In seguito agli accertamenti disposti, la polizia ha riscontrato, in particolare, sul retro di un furgone due uomini, che indossavano abiti di "Garda" (i.e. della polizia) e ha altresì rinvenuto un equipaggiamento, che includeva passamontagna, uniformi della polizia, un bastone elettrico e spray al pepe. Cinque uomini, tra cui il signor Donohoe, sono stati arrestati subito e accusati di appartenere a un’organizzazione illegale.

Il sig. Donohoe è stato giudicato da una corte penale speciale irlandese ed condannato a una pena di quattro anni di reclusione nel novembre 2004. L’opinione (“belief”) espressa dal capo ispettore PK ha rivestito un certo peso tra le prove incriminanti, in quanto egli ha dichiarato che, a prescindere dalle prove rinvenute nel corso delle operazioni di accertamento e indagine cui poi è seguito l’arresto del sig. Donohoe, egli era convinto che quest’ultimo era un membro dell’IRA e che tale sua opinione era basata su informazioni riservate orali e scritte ottenute da fonti della polizia e civili. L’ispettore si è, quindi, rifiutato di identificare le sue fonti, sulla base del fatto che la divulgazione avrebbe messo in pericolo vite umane e la sicurezza dello Stato.

Su richiesta, però, del sig. Donohoe, la Corte ha disposto indagini ulteriori e ordinato la produzione di tutte le rilevanti fonti riservate, al fine di garantire l’affidabilità dell’opinione espressa dall’ispettore PK. Il sig. Donohoe ha, altresì, chiesto di poter appellare tale condanna; tuttavia, in seguito a un’udienza e ad un’analisi approfondita delle autorità nazionali, la Corte ha negato al sig. Donohoe la possibilità di proporre appello e nell’ottobre 2007 la Corte d’appello penale ha, dopo un’altra udienza, rigettato la richiesta di rinvio dinanzi alla Corte suprema.

Invocando l’articolo 6 (diritto ad un processo equo), il sig. Donohoe ha lamentato che la mancata divulgazione delle fonti dell’ispettore PK aveva limitato la sua difesa e che la revisione da parte del giudice di merito di questi elementi non erano stata soddisfacente, in assenza di garanzie efficaci per garantire l’equità del processo. In particolare, il sig. Donohoe riteneva ingiusto che un giudice di merito potesse accedere ad elementi determinanti per il verdetto di colpevolezza, mentre lui, in qualità di imputato in tale processo, non avesse alcuna possibilità di esaminare i predetti elementi, dato che il controllo del giudice di merito si era svolto a porte chiuse.

La Corte ha rilevato che, nel valutare la correttezza della non divulgazione delle fonti dell’ispettor PK, si devono considerare tre questioni.

La prima, se era necessario o meno accettare il segreto delle fonti invocato dal sig. PK. La Corte ha ritenuto che la motivazione addotta, ossia la protezione di vite umane, compresa quella di persone in pericolo di rappresaglie da parte dell’IRA, e la sicurezza dello lo Stato e l’effettivo perseguimento di reati gravi e complessi - era convincente e fondata e che, quindi, la mancata divulgazione era necessaria.

La seconda, se la condanna del sig. Donohoe era fondata o meno in modo esclusivo o decisivo su tali informazioni riservate. La Corte ha ritenuto che ciò non accadeva nel caso in esame, rilevando che il giudice di merito aveva ascoltato più di 50 testimoni e che l’accusa aveva prodotto altre prove importanti, incluso il collegamento del sig. Donohoe con le attività sospette che si sono svolte a Corke Abbey il 2 ottobre 2002, nonché gli equipaggiamenti ritrovati nel veicolo, i documenti rinvenuti all’indirizzo del sig. Donohoe e la conclusione che il giudice di merito era legittimato a trarre dal rifiuto opposto dal sig. Donohoe alle domande poste nel corso dell’esame disposto durante il processo.

La terza, se vi fossero state sufficienti garanzie per compensare lo svantaggio causato alla difesa dal segreto invocato dall’ispettore PK. La Corte ha rilevato che il giudice di merito ha adottato una serie di misure che tenevano conto dei diritti della difesa.

Anzitutto, la questione della non-disclosure è stata oggetto di un ricorso giurisdizionale, in base al quale la Corte adita ha esaminato le prove documentali su cui la condanna si basava per verificarne l’adeguatezza e l’affidabilità e ha concluso che l’ispettore PK era in possesso di informazioni adeguate e attendibili che gli hanno legittimamente permesso ritenere che il sig. Donohoe fosse un membro dell’IRA. Altresì, detto giudice ha confermato che i dossier secretati non contenevano alcun elemento favorevole alla difesa dell’imputato e che se questi avesse avuto dubbi circa l’esame di merito condotto, avrebbe potuto chiedere alla Corte d’appello di esaminare le conclusioni rassegnate.

Altresì, la Corte ha rilevato che, secondo le leggi che autorizzano l’ammissione di una prova proveniente da un’“opinione”, essa può essere fornita solo da un alto funzionario di polizia e apprezzata da un giudice non come un mero fatto, bensì come una condanna, a fronte della quale la difesa poteva contro-esaminare detto alto funzionario in diversi modi - per esempio sulla natura delle fonti, sul fatto che conoscesse personalmente l’informatore o avesse trattato personalmente con lui e sulla sua esperienza nella raccolta di informazioni - per consentire al giudice di valutare il comportamento e la credibilità dell’ispettore, nonché l’affidabilità della sua testimonianza.

Pertanto, considerando il peso delle prove diverse dalla summenzionata convinzione dell’ispettore PK, nonché delle garanzie della difesa predisposte, la Corte ha ritenuto che la mancata divulgazione delle fonti dell’ispettore PK non abbia reso iniquo il processo penale nei confronti del sig. Donohoe.

 

 

Sentenza del 3 dicembre 2013, Văraru c. Romania, ricorso n. 35842/05

Il ricorrente, Diodoro Neculai Văraru, è un cittadino romeno, nato nel 1957 e vive a Hârlău (Romania).

La vicenda trae origine dal fatto che egli era stato rinviato a giudizio per guida senza patente in una strada pubblica e insulti ad un pubblico ufficiale sulla base delle dichiarazioni rese da due testimoni sentiti dai giudici rumeni nella fase delle indagini preliminari ma in assenza del signor Văraru. In particolare, essi avrebbero dichiarato che egli aveva colpito uno dei poliziotti presenti quando la sua auto è stata fermata.

Tuttavia, una volta chiamati a testimoniare nel corso del processo penale, tali due testimoni non si sono presentati e i giudici, avendo concluso che era impossibile interrogarli, hanno ordinato che le loro dichiarazioni venissero lette in pubblico.

Con sentenza pronunciata nell’ottobre 2003, il sig. Văraru è stato condannato a due anni di reclusione. Egli ha presentato ricorso avverso tale sentenza e ha chiesto, tra le altre cose, che i giudici sentissero nel contraddittorio tra le parti le persone che avevano testimoniato contro di lui nel corso delle predette indagini preliminari.

Il suo appello è stato rigettato nel febbraio 2005 e nel settembre 2005 una sentenza, divenuta poi definitiva, ha confermato la validità della sentenza del giudice d’appello.

Con ricorso dinanzi alla Corte EDU basato sull’articolo 6, paragrafi 1 e 3, il sig. Văraru ha lamentato di essere stato condannato, in particolare, per il reato di insulti ad un pubblico ufficiale sulla base delle dichiarazioni che egli non era stato in grado di contestare e i cui autori non erano stati esaminati nel corso del processo penale.

La Corte ha accertato, con la sua sentenza del 3 dicembre 2013, una violazione dell’articolo paragrafi 1 e 3, della Convenzione EDU e ha riconosciuto l’importo di euro 2.500 a titolo di risarcimento del danno morale patito, oltre a 750 euro per costi e spese.

 

 ·         Violazione dell’articolo 8

 

Sentenza del 12 dicembre 2013, Khmel c. Russia, ricorso n. 20383/04

Il ricorrente, Aleksandr Khmel, è nato nel 1960 ed è un cittadino russo residente a Murmansk.

Il caso riguardava la registrazione e la riproduzione di immagini-video del sig. Khmel in stato di ebbrezza in una stazione di polizia e i procedimenti che sono seguiti a tale vicenda.

All’epoca dei fatti di cui è causa, il sig. Khmel era un membro dell’Assemblea Legislativa della regione di Murmansk. Nel pomeriggio del 27 aprile 2003, il signor Khmel era stato portato alla stazione di polizia perché sospettato di guidare in stato di ebbrezza. Rifiutatosi di declinare le sue generalità, ha dato prova di un comportamento indisciplinato e si è rifiutato di lasciare l’edificio quando richiesto. Il capo della polizia ha, quindi, invitato una troupe televisiva alla stazione e il sig. Khmel è stato filmato mentre era malconcio e si comportava in modo inappropriato. Alcune sequenze sono state trasmesse nelle reti della televisione pubblica il giorno successivo.

Nel maggio 2003, è stato avviato un procedimento amministrativo contro il sig. Khmel tali fatti ed è stato riconosciuto di alcuni reati, tra cui il rifiuto di sottoporsi ad un test etilometro e atti minori di turbativa. È stato, pertanto, condannato a un’ammenda di 1.500 rubli russi (RUB). Altresì, nel mese di agosto 2005, è stato condannato in seguito a procedimenti penali relativi a minacce e insulti ad un pubblico ufficiale il giorno in cui è stato girata la sequenza video summenzionata ed è stato condannato a una multa di 7 500 RUB.

Entrambe le sentenze sono state confermate in appello da tribunali amministrativi e penali, rispettivamente nel 2003 e nel 2005.

Invocando l’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), il sig. Khmel lamentava di essere stato filmato alla stazione di polizia e che tale video era stato distribuito illegalmente. Ha inoltre fatto valere l’articolo 4 del Protocollo n.7 (diritto di non essere giudicato o punito due volte), sostenendo che a causa di tali due procedimenti amministrativo e penale egli era stato condannato due volte per lo stesso fatto.

Con la sentenza del 12 dicembre 2013, la Corte EDU ha riscontato entrambe le violazioni lamentate dal sig. Khmel e gli ha riconosciuto un importo di euro 5.000 a titolo di risarcimento del danno morale patito, nonché la somma di euro 450 per costi e spese.

 

 ·         Violazione dell’articolo 10 

      

Sentenza del 17 dicembre 2013, Perinçek c. Svizzera, ricorso n. 27510/08

Il ricorrente, Dogu Perincek, è un cittadino turco nato nel 1942 e vive a Ankara (Turchia). In qualità di medico legale e di Presidente del Partito dei lavoratori turchi, il sig Perincek ha partecipato a varie conferenze in Svizzera nel maggio, luglio e settembre del 2005, durante le quali ha pubblicamente negato che l'impero ottomano avesse perpetrato il crimine di genocidio contro il popolo armeno nel 1915 e negli anni seguenti. Ha descritto l'idea di un genocidio armeno come una "menzogna internazionale".

L'associazione "Svizzera-Armenia", ha presentato una denuncia penale contro di lui il 15 luglio 2005. Il 9 marzo 2007 il Tribunale di Losanna ha ritenuto il signor Perincek colpevole di discriminazione razziale ai sensi del Codice penale svizzero, in quanto le sue affermazioni lasciavano trapelare una tendenza razzista e non rientravano, invece, nel normale dibattito storico. Avverso tale sentenza ha presentato appello il signor Perincek, che è stato respinto dalla Cassazione - Sezione Penale - del Tribunale cantonale. A parere del giudice, il genocidio armeno, come il genocidio ebraico, era un comprovato fatto storico, riconosciuto dal legislatore svizzero alla data di adozione dell'articolo 261bis del Codice Penale. Nell’ottica del giudice svizzero, quindi, non vi era neppure bisogno di fare riferimento al lavoro degli storici per accertare l’esistenza di tale genocidio. La Divisione Cassazione ha sottolineato, inoltre, che il sig. Perincek aveva negato solo la qualifica di genocidio, senza mettere in discussione l'esistenza di massacri e di deportazioni degli armeni.

Il Tribunale federale ha respinto un ulteriore appello del sig. Perincek con sentenza del 12 dicembre 2007.

Invocando l'articolo 10 (libertà di espressione), il sig. Perincek ha proposto ricorso alla Corte EDU, lamentando che i giudici svizzeri hanno violato la sua libertà di espressione. Egli ha sostenuto, in particolare, che l'articolo 261bis, comma 4, del Codice penale svizzero non era sufficientemente prevedibile nei suoi effetti, che la sua condanna non era stata giustificata dal perseguimento di un obiettivo legittimo e che la presunta violazione della sua libertà di espressione non era stata "necessaria in una società democratica".

La Corte, esaminando in un primo momento se i commenti del sig. Perincek dovessero essere esclusi dalla tutela della libertà di espressione sulla base dell'articolo 17 (divieto di abuso del diritto), ha ribadito che le idee che possono offendere, scioccare o arrecare disturbo sono del pari tutelate dall’articolo 10. La Corte ha ritenuto necessario precisare che il sig. Perincek non aveva mai messo in discussione i massacri e le deportazioni perpetrati durante gli anni in questione, ma aveva negato la caratterizzazione di quegli eventi come "genocidio".

Il limite oltre il quale delle osservazioni possono rientrare o meno nell’articolo 17 sta nel verificare se dette osservazioni sono state fatte con l'obiettivo di incitare all'odio o alla violenza . Il rigetto della qualificazione giuridica come "genocidio" degli 1915 eventi non era, ad avviso della Corte, tale da incitare all'odio contro il popolo armeno. Il sig. Perincek non era, infatti, stato perseguito o condannato per incitamento all'odio, né aveva manifestato disprezzo per le vittime degli eventi in esame.

La Corte ha, pertanto, quindi constatato che il sig. Perincek non aveva abusato del suo diritto di discutere apertamente di tali questioni, seppur delicate e controverse, e non aveva usato il suo diritto alla libertà di espressione per fini contrastanti con il testo e lo spirito della Convenzione .

La Corte ha, poi, ritenuto che il termine "genocidio" come usato nel relativo articolo del Codice penale svizzero sollevava dubbi circa la precisione richiesta dall'articolo 10 § 2 della Convenzione . La Corte ha tuttavia concordato con il Tribunale federale che il sig. Perincek non poteva avere ignorato che descrivendo il genocidio armeno come una "menzogna internazionale" si stava esponendo al rischio di una sanzione penale prevista dalla legge svizzera.

La Corte ha rilevato che lo scopo della misura in questione era quello di proteggere i diritti degli altri, vale a dire l’onore dei parenti delle vittime delle atrocità perpetrate da parte dell'Impero Ottomano contro il popolo armeno dal 1915 in poi. Tuttavia, ha ritenuto che non era sufficientemente motivato l’argomento del governo circa il fatto che le osservazioni del sig. Perincek ponevano rischio grave per l'ordine pubblico.

La Corte ha sottolineato, poi, che essa non era chiamata ad affrontare né la questione relativa alla veridicità dei massacri delle deportazioni perpetrati contro il popolo armeno da parte dell'Impero ottomano dal 1915 in poi, né la questione dell'opportunità che la legge caratterizzi tali atti come "genocidio". La Corte doveva, invece, soppesare le esigenze di tutela dei diritti dei terzi, vale a dire l' onore dei parenti delle vittime armene con la libertà di espressione del signor Perincek.

La questione se gli eventi del 1915 potevano essere caratterizzati come "genocidio" è stata di grande interesse per il pubblico in generale e la Corte ha ritenuto che il sig. Perincek fosse impegnato in un discorso di carattere storico, giuridico e politico che faceva parte di un acceso dibattito. Alla luce dell’interesse pubblico dei suoi commenti, la Corte ha constatato che il margine di discrezionalità delle autorità era limitato. Il motivo essenziale per la condanna del sig. Perincek da parte dei tribunali svizzeri è stata l'apparente esistenza di un consenso generale, soprattutto nella comunità accademica, relativa alla qualificazione giuridica degli eventi in questione. Tuttavia, il Tribunale federale ha ammesso che non c'era unanimità nella comunità nel suo complesso relativa alla qualificazione giuridica in questione.

Secondo il sig. Perincek e il governo turco, terzo interveniente, sarebbe molto difficile identificare un consenso generale. La Corte ha condiviso tale parere, sottolineando che ci sono state diverse opinioni tra gli stessi organi politici svizzeri.

È emerso, inoltre, che solo una ventina di Stati nel mondo hanno ufficialmente riconosciuto il genocidio armeno. Tale riconoscimento non proveniva necessariamente dai governi di tali Stati - come è avvenuto in Svizzera - ma dal Parlamento o da una delle sue camere.

Concordando con il sig. Perincek, la Corte ha ritenuto che la nozione di "genocidio " è un concetto giuridico definito in modo rigoroso. Secondo la giurisprudenza della Corte Internazionale di Giustizia e del Tribunale penale internazionale per il Ruanda, affinché si tratti di genocidio, gli atti criminali devono essere stati perpetrati con l'intento di distruggere non solo alcuni membri di un particolare gruppo, ma tutti o parte del gruppo stesso. Il genocidio è un concetto giuridico molto restrittivo che è stato, pertanto, molto difficile da provare.

La Corte ha quindi dubitato che ci potesse essere un consenso generale relativamente alla classificazione di eventi come quelli di cui trattasi nel caso di specie, dato che la ricerca storica è per definizione aperta alla discussione e oggetto di dibattito, senza necessariamente dare luogo a conclusioni definitive o all’affermazione di verità oggettive e assolute.

Al riguardo, la Corte distingue nettamente tale fattispecie da quella relativa alla negazione dei crimini dell'Olocausto. In questi casi, infatti, i ricorrenti avevano negato i fatti storici molto concreti, come l'esistenza delle camere a gas o i crimini perpetrati dal regime nazista.

La Corte ha ritenuto che la Svizzera non era riuscita a dimostrare come vi era una necessità sociale di punire un individuo per discriminazione razziale sulla base delle dichiarazioni che contestavano la qualificazione giuridica degli atti perpetrati sul territorio dell'ex impero ottomano come “genocidio”. Due elementi sono stati in particolare tenuti in considerazione dalla Corte.

Da una parte, la Corte costituzionale spagnola, nel novembre 2007, aveva ritenuto incostituzionale il reato di negazionismo e aveva ritenuto che la semplice negazione di un crimine di genocidio non costituisse incitamento diretto alla violenza.

Dall’altra, nel febbraio 2012, il Consiglio Costituzionale francese aveva dichiarato incostituzionale una legge che prevedeva una sanzione penale per la negazione dell'esistenza dei genocidi riconosciuti dalla legge, non ritenendola con la libertà di espressione e la libertà di ricerca.

A parere della Corte EDU, la decisione del Consiglio costituzionale francese ha dimostrato che non vi era in linea di principio alcuna contraddizione tra il riconoscimento ufficiale di alcuni eventi come genocidio e la conclusione che sarebbe incostituzionale imporre sanzioni penali a persone che mettevano in dubbio il punto di vista ufficiale.

Infine, la Corte ha sottolineato che il Comitato dei Diritti Umani delle Nazioni Unite si è espresso nei seguenti termini:«[l]eggi che penalizzano l'espressione di opinioni su fatti storici [sono] incompatibili con gli obblighi che il Patto [sui diritti civili e politici] impongono [agli] Stati contraenti e che non consente alcun divieto generale di esprimere un parere diverso o di dare un’interpretazione differente, persino errata, di eventi passati".

In conclusione, la Corte ha messo in dubbio che la condanna del sig. Perincek fosse stata dettata da un "pressante bisogno sociale". La Corte ha, poi, sottolineato che doveva essere garantito che tale sanzione non costituisse una sorta di censura che porterebbe le persone ad astenersi dall'esprimere critiche in relazione a fatti storici di tale portata. Infatti, in un dibattito di interesse generale, tale sanzione potrebbe dissuadere da fornire contributi alla discussione pubblica di questioni di interesse per la vita della comunità.

Pertanto, la Corte ha rilevato che i motivi addotti dalle autorità nazionali al fine di giustificare la condanna del sig. Perincek erano insufficienti e che le autorità nazionali hanno oltrepassato lo stretto margine di apprezzamento previsto in questo caso rispetto ad una questione di interesse pubblico innegabile. Vi era stata, pertanto, ad avviso della Corte, una violazione dell’articolo 10 della Convenzione EDU.

 

 

Conclusioni del 26 novembre 2031 dell’avvocato generale nella causa C-314/12, UPC Telekabel Wien GmbH / Constantin Film Verleih GmbH e Wega - Filmproduktionsgesellschaft GmbH

Secondo l’avvocato generale Cruz Villalón un internet provider può essere obbligato a bloccare ai suoi clienti l’accesso ad un sito internet che viola il diritto d’autore

 

Ai sensi del diritto dell’Unione gli Stati membri devono assicurare che i titolari dei diritti d’autore o di diritti connessi possano chiedere un provvedimento inibitorio nei confronti di intermediari i cui servizi siano utilizzati da un terzo per violare i loro diritti. È già stato chiarito che i fornitori di accesso a internet (gli internet provider), in linea di principio, vanno considerati come intermediari in tal senso e pertanto come destinatari del provvedimento summenzionato, il quale deve porre fine alle violazioni già attuate e prevenire nuove violazioni. Nella prassi i gestori di un sito internet illegale o tali internet provider di siti online operano di frequente al di fuori dei confini europei oppure occultano la loro identità, così da non poter essere perseguiti.

La suprema Corte austriaca (Oberste Gerichtshof) ha chiesto quindi alla Corte se anche il provider, che si limiti a procurare agli utenti l’accesso a internet di un sito internet illegale, debba essere considerato un intermediario da prendere in considerazione nel caso in cui i suoi servizi siano utilizzati da un terzo – quale il gestore di un sito internet illegittimo – per la violazione di un diritto d’autore, di modo che anch’esso possa essere assoggettato ad un provvedimento inibitorio. Inoltre, il giudice del rinvio desiderava ottenere alcune precisazioni riguardo alle norme del diritto dell’Unione sul contenuto e la procedura di adozione di un provvedimento inibitorio siffatto.

Nelle sue conclusioni l’avvocato generale Pedro Cruz Villalón sostiene che anche l’internet provider dell’utente di un sito internet che viola il diritto d’autore debba essere considerato come un intermediario i cui servizi sono utilizzati da un terzo – segnatamente il gestore del sito internet – per violare il diritto d’autore e di conseguenza deve essere preso in considerazione quale destinatario del provvedimento inibitorio. Ciò risulta dal tenore letterale, dal contesto e dalla ratio della normativa del diritto dell’Unione.

Inoltre l’avvocato generale è del parere che non sia compatibile con il necessario bilanciamento tra i diritti fondamentali delle parti coinvolte, vietare ad un provider in modo totalmente generale e senza prescrizione di misure concrete di consentire ai suoi clienti l’accesso ad un determinato sito internet che viola il diritto d’autore. Ciò vale anche nel caso in cui il provider possa evitare sanzioni per la violazione di tale divieto dimostrando di aver adottato tutte le misure ragionevoli per l’attuazione del divieto. L’avvocato generale ha sottolineato in tale contesto che il provider dell’utente non ha alcun rapporto con i gestori del sito internet che ha violato il diritto d’autore ed esso non ha leso tale diritto. Una concreta misura di blocco relativa ad uno specifico sito internet, imposta nei confronti di un provider, invece, non sarebbe, in linea di principio, sproporzionata per il solo fatto che comporti un impiego di mezzi non trascurabile e, tuttavia, potrebbe essere facilmente aggirata senza particolari conoscenze tecniche. Spetterebbe ai giudici nazionali compiere nel caso di specie un bilanciamento tra i diritti fondamentali delle parti coinvolte, tenendo conto di tutti gli elementi rilevanti e assicurare in tal modo un giusto equilibrio tra tali diritti fondamentali.

Nella valutazione dei diritti fondamentali occorrerebbe inoltre tenere conto del fatto che in futuro potrebbero essere trattati dinanzi ai giudici nazionali numerosi casi analoghi nei confronti di ciascun provider. L’avvocato generale Cruz Villalón ha rilevato anche che il titolare dei diritti dovrebbe anzitutto citare in giudizio direttamente, ove possibile, i gestori del sito internet illegale o i loro provider.

 

 

Sentenza del 14 novembre 2013, procedimento relativo all’esecuzione di una sanzione pecuniaria irrogata nei confronti - Marián Baláž, Domanda di pronuncia pregiudiziale: Vrchní soud v Praze - Repubblica Ceca, C-60/12

Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale - Decisione quadro 2005/214/GAI - Applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie - "Autorità giudiziaria competente, in particolare, in materia penale" - L’"Unabhängiger Verwaltungssenat" in diritto austriaco - Natura e portata del controllo esercitato dall’autorità giudiziaria dello Stato membro dell’esecuzione

 

La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 1, lettera a), iii), della decisione quadro 2005/214/GAI del Consiglio, del 24 febbraio 2005, relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sanzioni pecuniarie (GU L 76, pag. 16), come modificata dalla decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio, del 26 febbraio 2009 (GU L 81, pag. 24; in prosieguo: la «decisione quadro»). Tale domanda è stata presentata nell’ambito di un procedimento d’esecuzione avente ad oggetto la riscossione di un’ammenda irrogata al sig. Baláž, cittadino ceco, a seguito di un’infrazione al codice della strada dallo stesso commessa in Austria.

Con lettera del 19 gennaio 2011 la BHM Kufstein (autorità amministrativa del distretto di Kustein) ha inviato al Krajský soud v Ústí nad Labem (Corte regionale di Ústí nad Labem, Repubblica ceca) una domanda di riconoscimento e di esecuzione della propria decisione del 25 marzo 2010 che infliggeva al sig. Baláž una sanzione pecuniaria per infrazione al codice della strada. La lettera conteneva un certificato redatto in lingua ceca, così come previsto dall’articolo 4 della decisione quadro, e la «decisione di condanna» («Strafverfügung»). Emerge da tali documenti che il 22 ottobre 2009 il sig. Baláž, alla guida di un autocarro trainante un semirimorchio e immatricolato nella Repubblica ceca, non aveva rispettato, in Austria, il segnale «divieto di transito per i veicoli con peso superiore alle 3,5 tonnellate». Per questo motivo è stato condannato al pagamento di un’ammenda di EUR 220, unitamente alla pena della privazione di libertà per 60 ore in caso di mancato pagamento entro il termine impartito.

Come risulta dall’ordinanza di rinvio, il certificato emesso dalla BHM Kufstein riportava che la decisione in questione proveniva da un’autorità dello Stato della decisione diversa da un’autorità giudiziaria, adottata a seguito di atti che sono punibili a norma della legislazione di detto Stato a titolo di infrazioni a regolamenti. Inoltre, il suddetto certificato indicava che la persona interessata aveva avuto la possibilità di essere giudicata dinanzi ad un’autorità giudiziaria competente, in particolare, in materia penale.

Stando alle indicazioni fornite nel medesimo certificato, tale decisione è divenuta definitiva ed esecutiva il 17 luglio 2010. Infatti, il sig. Baláž non ha proposto ricorso avverso tale decisione, nonostante fosse stato informato, conformemente al diritto dello Stato della decisione, circa il suo diritto di proporre un ricorso personalmente o tramite un rappresentante nominato o assegnato conformemente al diritto nazionale.

Il 17 maggio 2011 il Krajský soud v Ústí nad Labem ha diposto una pubblica udienza ai fini dell’esame della domanda presentata dalla BHM Kufstein. Nell’ambito di tale udienza è stato accertato in particolare che la decisione di condanna adottata dalla BHM Kufstein era stata notificata al sig. Baláž il 2 luglio 2010 da parte dell’Okresní soud v Teplicích (Tribunale circoscrizionale di Teplice, Repubblica ceca) in lingua ceca e che in essa era menzionata la possibilità di presentare opposizione avverso tale decisione oralmente, per iscritto e anche per via elettronica entro due settimane a decorrere dalla sua notifica, nonché la possibilità di dedurre nell’opposizione elementi di prova a suo discarico e di presentare appello dinanzi all’Unabhängiger Verwaltungssenat. Al termine del procedimento, avendo accertato che il sig. Baláž non si era avvalso del mezzo di ricorso disponibile («Einspruch»), il Krajský soud v Ústí nad Labem ha pronunciato una sentenza con cui ha riconosciuto la citata decisione e l’ha dichiarata esecutiva nel territorio della Repubblica ceca.

Il 6 giugno 2011 il sig. Baláž ha proposto appello avverso tale sentenza dinanzi al Vrchní soud v Praze (Corte superiore di Praga, Repubblica ceca). Come emerge dall’ordinanza di rinvio, egli ha in particolare dedotto, da un lato, che i dati contenuti nel certificato emesso dalla BHM Kufstein potevano essere rimessi in questione e, dall’altro, che la decisione di quest’ultima non poteva essere eseguita in quanto non poteva costituire oggetto di un’impugnazione dinanzi a un’autorità giudiziaria competente, in particolare, in materia penale. Infatti, secondo il sig. Baláž, la normativa austriaca prevede un mezzo di ricorso avverso una decisione in materia di infrazioni al codice della strada soltanto dinanzi all’Unabhängiger Verwaltungssenat e non consente dunque di essere giudicati da un’autorità giudiziaria competente, in particolare, in materia penale.

A tal riguardo, il Vrchní soud v Praze deve valutare se il provvedimento adottato dalla BHM Kufstein sia una decisione ai sensi dell’articolo 460o, paragrafo 1, lettera a), del codice di procedura penale e, pertanto, una decisione ai sensi dell’articolo 1, lettera a), iii), della decisione quadro. Se così fosse, dovrà allora decidere se siano soddisfatte le condizioni per il suo riconoscimento e la sua esecuzione nel territorio della Repubblica ceca.

In tali circostanze, lo Vrchní soud v Praze ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte alcune questioni pregiudiziali. In particolare, con le sue questioni prima seconda, lettere a) e b), che è opportuno esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio intende sapere se la nozione di «autorità giudiziaria competente, in particolare, in materia penale», ai sensi dell’articolo 1, lettera a), iii), della decisione quadro, debba essere interpretata come una nozione autonoma di diritto dell’Unione e, in caso di risposta affermativa, quali siano i criteri rilevanti a tale riguardo. Esso chiede altresì se l’Unabhängiger Verwaltungssenat corrisponda a tale nozione. Con la sua terza questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se articolo 1, lettera a), iii), della decisione quadro debba essere interpretato nel senso che si deve ritenere che una persona abbia avuto la possibilità di essere giudicata da un’autorità giudiziaria competente, in particolare, in materia penale qualora, prima di presentare il proprio ricorso, la stessa abbia dovuto rispettare un procedimento amministrativo precontenzioso e se, a tale riguardo, la natura e la portata del controllo esercitato dall’autorità giudiziaria competente siano rilevanti ai fini del riconoscimento e dell’esecuzione della decisi one che infligge una sanzione pecuniaria.

Anzitutto, la Corte ha osservato che, come si evince in particolare dai suoi articoli 1 e 6, nonché dai considerando 1 e 2, la decisione quadro intende istituire un meccanismo efficace di riconoscimento e di esecuzione transfrontaliero delle decisioni definitive che infliggono una sanzione pecuniaria a una persona fisica o giuridica a seguito del compimento di uno dei reati elencati all’articolo 5 della medesima decisione. A tale proposito occorre precisare che la nozione di «autorità giudiziaria competente, in particolare, in materia penale» non può essere lasciata all’apprezzamento di ciascuno Stato membro.

In considerazione del fatto che il principio del riconoscimento reciproco, cui è improntata l’economia della decisione quadro, implica, a norma dell’articolo 6 di quest’ultima, che gli Stati membri siano, in linea di principio, tenuti a riconoscere, senza altre formalità, una decisione di irrogazione di una sanzione pecuniaria che sia stata trasmessa conformemente all’articolo 4 della decisione quadro e ad adottare immediatamente tutti i provvedimenti necessari alla sua esecuzione, i motivi di diniego di riconoscimento o di esecuzione di una tale decisione devono essere interpretati restrittivamente (v., per analogia, sentenza del 29 gennaio 2013, Radu, C396/11, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 36 e giurisprudenza ivi citata). Certamente, quindi, qualora il certificato di cui all’articolo 4 della decisione quadro, di cui è corredata la decisione che infligge una sanzione pecuniaria, faccia ritenere che siano stati violati diritti fondamentali o principi giuridici fondamentali enunciati nell’articolo 6 TUE, le autorità competenti dello Stato di esecuzione possono rifiutare di riconoscere ed eseguire una siffatta decisione in presenza di uno dei motivi di diniego di riconoscimento e di esecuzione elencati all’articolo 7, paragrafi 1 e 2, della decisione quadro nonché in forza dell’articolo 20, paragrafo 3, della stessa.

In tale contesto normativo, al fine di interpretare la nozione di «autorità giudiziaria», contenuta all’articolo 1, lettera a), iii), della decisione quadro, occorre basarsi sui criteri elaborati dalla Corte per valutare se un organo del rinvio possegga le caratteristiche di «organo giurisdizionale» ai sensi dell’articolo 267 TFUE. In tal senso, secondo una giurisprudenza costante, la Corte tiene conto di un insieme di elementi, quali il fondamento legale dell’organo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che l’organo applichi norme giuridiche e che sia indipendente (v., per analogia, sentenza del 14 giugno 2011, Miles e a., C196/09, Racc. pag. I5105, punto 37 e giurisprudenza ivi citata).

Per quanto riguarda l’espressione «competente, in particolare, in materia penale», è vero che la decisione quadro è stata adottata sul fondamento degli articoli 31, paragrafo1, lettera a), UE e 34, paragrafo 2, lettera b), UE, nell’ambito della cooperazione giudiziaria in materia penale. Tuttavia, ai sensi del suo articolo 5, paragrafo 1, l’ambito di applicazione della decisione quadro comprende le «infrazioni al codice della strada». Orbene, tali infrazioni non sono soggette a un trattamento uniforme nei vari Stati membri, dato che alcuni di essi le qualificano come illeciti amministrativi, mentre altri come illeciti penali.

Ne consegue che, al fine di garantire l’effetto utile della decisione quadro, è necessario ricorrere a un’interpretazione dell’espressione «competente, in particolare, in materia penale» nella quale non è determinante la qualificazione delle infrazioni da parte degli Stati membri. A tal fine è necessario che l’autorità giudiziaria competente ai sensi dell’articolo 1, lettera a), iii), della decisione quadro applichi un procedimento che presenti le caratteristiche essenziali di un procedimento penale, senza tuttavia che sia richiesto che tale autorità giudiziaria disponga di una competenza esclusivamente penale.

Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, la Corte ha dichiarato che, quanto alla prima e alla seconda questione, lettere a) e b), la nozione di «autorità giudiziaria competente, in particolare, in materia penale», di cui all’articolo 1, lettera a), iii), della decisione quadro, costituisce una nozione autonoma di diritto dell’Unione e deve essere interpretata nel senso che rientra in tale nozione ogni organo giurisdizionale che applichi un procedimento che presenta le caratteristiche essenziali di un procedimento penale. L’Unabhängiger Verwaltungssenat soddisfa tali criteri e, di conseguenza, deve essere considerato rientrante nella suddetta nozione.

Per quanto riguarda, poi, la questione se il diritto di presentare ricorso sia garantito nonostante l’obbligo di rispettare un procedimento amministrativo preliminare prima che la causa venga trattata da un’autorità giudiziaria competente, in particolare, in materia penale ai sensi della decisione quadro, si deve sottolineare, come fanno il giudice del rinvio e tutte le parti che hanno presentato osservazioni alla Corte, che articolo 1, lettera a), iii), della decisione quadro non esige che la controversia possa essere direttamente sottoposta a una tale autorità giudiziaria.

Quanto, inoltre, alla portata e alla natura del controllo esercitato dall’autorità giudiziaria che può essere adita, quest’ultima deve essere pienamente competente ad esaminare la causa con riferimento tanto alla valutazione in diritto quanto alle circostanze di fatto e deve avere in particolare la possibilità di esaminare le prove e di accertare su tale base la responsabilità dell’interessato nonché l’adeguatezza della pena.

Infine, il fatto che la persona interessata non abbia presentato un ricorso e che, dunque, la sanzione pecuniaria in questione sia divenuta definitiva, non ha alcuna incidenza sull’applicazione dell’articolo 1, lettera a), iii), della decisione quadro, dal momento che, a termini di tale disposizione, è sufficiente che alla persona interessata «sia stata data la possibilità» di essere giudicata da un’autorità giudiziaria competente, in particolare, in materia penale.

Alla luce dell’insieme delle suesposte considerazioni la Corte ha affermato che occorre rispondere alla terza questione dichiarando che l’articolo 1, lettera a), iii), della decisione quadro deve essere interpretato nel senso che si deve ritenere che una persona abbia avuto la possibilità di essere giudicata da un’autorità giudiziaria competente, in particolare, in materia penale nel caso in cui, prima di presentare il proprio ricorso, la stessa abbia dovuto rispettare un procedimento amministrativo precontenzioso. Siffatta autorità giudiziaria deve essere pienamente competente ad esaminare la causa con riferimento tanto alla valutazione in diritto quanto alle circostanze di fatto

 

 

Sentenza del 14 novembre 2013, Bundesrepublik Deutschland / Kaveh Puid, C-4/11

Uno Stato membro che non possa trasferire un richiedente asilo verso lo Stato competente per l’esame della richiesta, perché sussiste il rischio che in questo Stato vengano violati i suoi diritti fondamentali, è tenuto a identificare un altro Stato membro competente

 

Il regolamento «Dublino II» enuncia i criteri che consentono di determinare lo Stato membro competente per l’esame di una domanda di asilo presentata nell’Unione: in linea di principio, è competente un solo Stato membro. Per il caso in cui un richiedente asilo presenti domanda in uno Stato membro diverso da quello competente in base al regolamento, è prevista una procedura per il suo trasferimento verso lo Stato membro competente. Nondimeno, in una situazione del genere, lo Stato membro al quale è stata indirizzata la domanda può decidere di non trasferire il richiedente verso lo Stato competente e di esaminare esso stesso la domanda.

Il sig. Puid, cittadino iraniano, è entrato illegalmente in Germania attraverso la Grecia. La domanda di asilo che ha presentato in Germania è stata dichiarata irricevibile giacché, ai sensi del regolamento, era la Grecia lo Stato membro competente per esaminarla. Il sig. Puid è stato perciò trasferito in quest’ultimo Stato. Egli ha proposto, tuttavia, un ricorso per annullamento della decisione di rigetto della sua domanda, che è stato accolto dal Verwaltungsgericht Frankfurt am Main (Tribunale amministrativo di Francoforte sul Meno, Germania). Secondo detto giudice, considerate le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo e del trattamento delle domande di asilo in Grecia, la Germania era tenuta a esaminare la domanda. Le autorità tedesche hanno successivamente riconosciuto al sig. Puid lo status di rifugiato.

Lo Hessischer Verwaltungsgerichtshof (Corte amministrativa d’appello dell’Assia, Germania), investito dell’impugnazione della decisione del Verwaltungsgericht Frankfurt am Main, ha chiesto alla Corte di giustizia di precisare come debba essere identificato lo Stato tenuto a esaminare la domanda di asilo. Il giudice tedesco mirava in particolare a sapere se il regolamento conferisca al richiedente asilo il diritto di pretendere da uno Stato membro che esamini la sua domanda qualora tale Stato non possa trasferirlo, stante il rischio di una violazione dei suoi diritti fondamentali, verso lo Stato membro inizialmente identificato come competente.

Nella sentenza odierna la Corte ha rammentato, anzitutto, che uno Stato membro è tenuto a non trasferire un richiedente asilo verso lo Stato membro inizialmente identificato come competente quando non può ignorare che le carenze sistemiche della procedura di asilo e delle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in tale Stato membro costituiscono motivi seri e comprovati di credere che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti.

Ebbene, la Corte ha rilevato che in simili frangenti uno Stato membro, ai sensi del regolamento, può esaminare esso stesso la domanda. La Corte ha precisato, però, che, qualora non intenda avvalersi di tale facoltà, detto Stato, in linea di principio, non è tenuto al trattamento della domanda. Per contro, esso è tenuto a identificare lo Stato membro competente per l’esame della domanda di asilo proseguendo l’esame dei criteri enunciati nel regolamento. Se non si riesce a effettuare tale identificazione, competente per l’esame della domanda di asilo è il primo Stato membro nel quale la domanda è stata presentata.

La Corte ha rimarcato, infine, che lo Stato membro nel quale si trova il richiedente asilo deve curare che la situazione di violazione dei diritti fondamentali di tale richiedente non sia aggravata da una procedura di determinazione dello Stato membro competente che abbia durata irragionevole. All’occorrenza, pertanto, dovrà esaminare esso stesso la domanda.

 

 

Sentenza del 7 novembre 2013, cause riunite C-199/12, C-200/12, C-201/12, X, Y, Z / Minister voor Immigratie en Asiel

L’esistenza, nel paese d’origine, di una pena detentiva per atti omosessuali qualificati come reato può, di per sé, costituire un atto di persecuzione, purché tale pena trovi effettivamente applicazione

 

Ai sensi della direttiva europea 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, che fa riferimento alle disposizioni della convenzione di Ginevra, il cittadino di un paese terzo il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un determinato «gruppo sociale», si trovi fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non possa o, a causa di tale timore, non voglia avvalersi della protezione di detto paese, può chiedere lo status di rifugiato. Gli atti di persecuzione devono essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave di diritti umani fondamentali.

X, Y e Z sono cittadini, rispettivamente, della Sierra Leone, dell’Uganda e del Senega e chiedono lo status di rifugiati nei Paesi Bassi, sostenendo di avere il fondato timore di persecuzione nei loro paesi d’origine, a causa del loro orientamento sessuale. In tutti e tre i paesi gli atti omosessuali configurano infatti reati passibili di pene severe, che vanno da pesanti sanzioni pecuniarie fino, in taluni casi, all’ergastolo.

Il Raad van State (Consiglio di Stato, Paesi Bassi), adito in ultimo grado, si è rivolto alla Corte di giustizia in merito alla valutazione delle domande volte a ottenere la qualifica di rifugiato ai sensi della direttiva. Questo giudice ha chiesto alla Corte se si possa ritenere che i cittadini di paesi terzi che siano omosessuali costituiscano un «particolare gruppo sociale» ai sensi della direttiva. Altresì ha cheisto secondo quali criteri le autorità nazionali debbano valutare che cosa costituisca, in tale contesto, un atto di persecuzione con riferimento ad atti omosessuali e se il fatto di qualificare simili atti, nel paese d’origine del richiedente, come reati passibili di pena detentiva configuri una persecuzione.

Nella sua odierna sentenza, la Corte ha considerato in primis che è pacifico che l’orientamento sessuale di una persona costituisce una caratteristica così fondamentale per la sua identità che essa non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi. A tale riguardo, la Corte ha ammesso che l’esistenza di una legislazione penale che riguarda in modo specifico le persone omosessuali consente di affermare che queste costituiscono un gruppo a parte, percepito dalla società circostante come diverso.

Tuttavia, affinché una violazione dei diritti fondamentali costituisca una persecuzione ai sensi della predetta convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati, firmata il 28 luglio 1951, essa deve raggiungere un determinato livello di gravità. Non tutte le violazioni dei diritti fondamentali a danno di un omosessuale richiedente asilo raggiungeranno pertanto necessariamente tale livello di gravità. Pertanto, la mera esistenza di una legislazione che qualifica come reato gli atti omosessuali non può essere ritenuta un pregiudizio talmente grave da far ritenere che costituisca una persecuzione ai sensi della direttiva. Una pena detentiva che sanziona gli atti omosessuali può invece, di per sé, costituire un atto di persecuzione, purché essa trovi effettivamente applicazione.

Ne discende che qualora un richiedente asilo faccia valere l’esistenza nel proprio paese d’origine di una legislazione che qualifica come reato taluni atti omosessuali, le autorità dello Stato in cui richiede lo status di rifugiato devono procedere ad un esame di tutti i fatti pertinenti che riguardano tale paese d’origine, comprese le sue disposizioni legislative e regolamentari e le relative modalità di applicazione. Dette autorità debbono in particolare determinare se, nel paese d’origine, la pena detentiva trovi applicazione nella prassi.

Quanto alla questione se sia ragionevole attendersi che, per evitare la persecuzione, un richiedente asilo nasconda la propria omosessualità nel suo paese d’origine o dia prova di riservatezza nell’esprimere tale orientamento sessuale, la Corte risponde negativamente. Essa ritiene che il fatto di esigere dai membri di un gruppo sociale che condividono lo stesso orientamento sessuale che essi lo nascondano è contrario al riconoscimento stesso di una caratteristica così fondamentale per l’identità. Gli interessati non dovrebbero pertanto essere costretti a rinunciarvi. Secondo la Corte, non è quindi lecito attendersi che, per evitare la persecuzione, un richiedente asilo nasconda la propria omosessualità nel suo paese d’origine.

 

 

Sentenza del 17 ottobre 2013, Michael Schwarz / Stadt Bochum, C-291/12.

Il rilevamento e la conservazione nel passaporto delle impronte digitali lede i diritti al rispetto della vita privata e alla tutela dei dati personali, ma tali misure sono giustificate dal fine di impedire qualsiasi uso fraudolento dei passaporti

 

Il regolamento n. 2252/2004 del Consiglio, del 13 dicembre 2004, prevede che i passaporti presentino un supporto di memorizzazione altamente protetto che contiene, accanto all’immagine del volto, due impronte digitali. Queste possono essere utilizzate al solo scopo di verificare l’autenticità del passaporto e l’identità del suo titolare.

Il sig. Schwarz ha chiesto all’amministrazione della città di Bochum (Germania) il rilascio di un passaporto, rifiutandosi però di farsi rilevare le impronte digitali. Poiché l’autorità ha respinto la sua richiesta, il sig. Schwarz ha proposto ricorso dinanzi al Verwaltungsgericht Gelsenkirchen (Tribunale amministrativo di Gelsenkirchen, Germania), affinché ingiungesse all’amministrazione di rilasciargli il passaporto senza prelevargli le impronte digitali.

In tale contesto, il tribunale amministrativo ha chiesto alla Corte di giustizia dell’Unione europea se il regolamento, obbligando chi richiede il passaporto a far rilevare le proprie impronte digitali e prevedendo la conservazione di queste nel passaporto, sia valido, in particolare, alla luce della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Con la sentenza del 17 ottobre 2013, la Corte di giustizia ha risposto in senso affermativo a tale domanda.

Sebbene il rilevamento delle impronte digitali e la loro conservazione nel passaporto costituiscano un pregiudizio ai diritti al rispetto della vita privata e alla tutela dei dati personali, tali misure sono in ogni caso giustificate dallo scopo di preservare i passaporti dagli usi fraudolenti.

La Corte ha osservato al riguardo che le misure contestate perseguono, in particolare, l’obiettivo d’interesse generale di impedire l’ingresso illegale di persone nell’Unione europea. A tal fine, esse mirano a prevenire la falsificazione dei passaporti e a impedirne l’uso fraudolento.

Innanzitutto, non emerge dagli elementi messi a disposizione della Corte, né è stato sostenuto, che tali misure non rispettino il contenuto essenziale dei diritti fondamentali di cui trattasi.

Altresì, le misure contestate sono idonee a conseguire lo scopo di preservare i passaporti da un uso fraudolento, riducendo notevolmente il rischio che a persone non autorizzate sia erroneamente consentito entrare nel territorio dell’Unione europea.

Infine, le misure contestate non eccedono quanto necessario al conseguimento del suddetto scopo.

Per quanto attiene al rilevamento delle impronte digitali, non è stata riferita alla Corte l’esistenza di misure sufficientemente efficaci che siano meno pregiudizievoli. La Corte ha rilevato segnatamente che il grado di maturità tecnologica del metodo basato sul riconoscimento dell’iride non è pari a quello del metodo basato sulle impronte digitali e che, dati i costi al momento molto più elevati, tale metodo è meno adatto a un impiego generalizzato.

Quanto al trattamento delle impronte digitali, la Corte ha fatto osservare che queste svolgono un ruolo specifico nel settore dell'identificazione delle persone in generale. Infatti, il confronto delle impronte digitali rilevate in un luogo con quelle memorizzate in una banca dati consente di dimostrare la presenza in tale luogo di una determinata persona, che ciò avvenga nell’ambito di un'indagine penale oppure allo scopo di sorvegliare indirettamente tale persona.

La Corte ha, però, affermato che il regolamento precisa espressamente che le impronte digitali possono essere utilizzate soltanto allo scopo di verificare l'autenticità del passaporto e l’identità del suo titolare. Per di più, il regolamento prevede che le impronte digitali siano conservate solamente all’interno del passaporto, il quale permane di esclusivo possesso del suo titolare. Non prevedendo nessun’altra forma né strumento per conservare tali impronte, il regolamento non può essere interpretato come idoneo a fornire, in quanto tale, un fondamento giuridico ad una eventuale centralizzazione dei dati raccolti in base ad esso oppure all'impiego di questi ultimi a fini diversi da quello di impedire l'ingresso illegale di persone nel territorio dell'Unione.

La Corte di giustizia ha infine rilevato che il regolamento è stato adottato su un adeguato fondamento giuridico e che la procedura che ha portato all’adozione del testo applicabile nel caso di specie non è viziata, dato che il Parlamento vi ha pienamente partecipato come colegislatore.

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